Il Coaching e la filosofia del Buddismo

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Il Coaching e la filosofia del Buddismo

Qualità di un Coach, qualità di un Buddha: quanti punti in comune!

Durante il percorso di studio per il Master di Coaching mi sono trovata a vivere situazioni di vita che mi hanno portata a ricercare calma, equilibrio e tranquillità, dentro e fuori di me. Ho sentito il bisogno di fare chiarezza su alcuni aspetti personali, le mie scelte, le priorità, le relazioni, il modo di vivere, la frenesia dei ritmi cittadini, gli eccessivi incessanti stimoli esterni. Sentivo che dovevo fermarmi un attimo, riflettere, meditare.

Meditare, una pratica che è sempre stata intorno a me senza mai toccarmi in prima persona. Ho pensato che fosse un buon momento per saperne di più. Amante della lettura come forma di arricchimento, apprendimento e benessere interiore, mi sono avvicinata a un testo dal titolo “Profondo come il mare, leggero come il cielo” di Gianluca Gotto. Un giovane scrittore, nomade digitale, che nel corso degli anni ha viaggiato e lavorato in tantissimi Paesi, affrontando tante difficoltà e crisi interiori. Un giorno, a seguito della malattia della dengue, ha cominciato a sentire un forte malessere interiore, profondo, e si sentiva incapace di vedere una via d’uscita. Nonostante non mancasse nulla alla sua vita, sentiva un vuoto dentro, un senso di insoddisfazione. Nel libro Gianluca racconta il suo avvicinamento al Buddismo, i preziosi insegnamenti tratti attraverso i dialoghi con il suo maestro Kento incontrato nel tempio buddista in Thailandia, la profonda trasformazione attraverso la pratica della meditazione. La lettura di questo testo è avvenuta in contemporanea con l’intero percorso di formazione in Coaching e man mano che procedevo nello studio mi stupivo di quanti elementi in comune riscontrassi tra la filosofia del Buddismo e il metodo del Coaching.

ACCOMPAGNARE VERSO UNA MAGGIORE CONSAPEVOLEZZA

Come descritto nel libro “l’obiettivo del Buddismo non è renderti più buono, ma più saggio. Molte persone sono buone ma prive di consapevolezza. Sono confuse, stressate e spaventate. Ansiose e depresse. Senza consapevolezza sei uno sciocco, sei il peggior nemico di te stesso: ti muovi male, alla cieca, e finisci col raccogliere frutti amari.”

Il compito del Coach è accompagnare il coachee verso una maggiore consapevolezza sulle proprie potenzialità, attraverso l’interiorizzazione delle stesse per applicarle alla propria realizzazione come essere umano.

Il maestro invita l’allievo a ricercare la calma, la saggezza, la consapevolezza, la saggezza, la presenza, e l’equilibrio per accogliere la vita così come si manifesta e vivere in modo saggio, con lucidità, in pieno controllo di sè, identificando dunque un essere umano consapevole.

“Me lo ha insegnato attraverso un processo di rimozione: non mi ha imposto una saggezza esterna, ha fatto emergere quella che già possedevo rimuovendo strati di stress, ansia, tristezza, pensieri distruttivi, abitudini malsane e desideri tossici”.
Il Coach valorizza il potenziale della persona, accompagna il coachee nel processo di trasformazione delle proprie credenze. Nell’approccio della Psicologia Positiva, Seligman sviluppa il manuale di classificazione delle caratteristiche universali umane, individuando 6 virtù comuni al genere umano: saggezza, umanità, coraggio, trascendenza, temperanza, giustizia. Il Coaching identifica nel coachee una persona responsabile che autodetermina le proprie azioni, autonomo nelle scelte.

“Eravamo nella stanza solo io e lui, zitti. Perchè non diceva niente? Lui rimase in silenzio a lungo, come se riflettesse sulle parole giuste. E poi mi disse: “qual è allora la risposta che stai cercando?”
Uno strumento potente ed efficace utilizzato dal Coach è il silenzio, permette al coachee di entrare in uno spazio-tempo prezioso per connettersi con sé stesso ad un più alto livello di profondità.

Un altro strumento del Coach sono le domande, puntuali e chiare. Se è vero che non esistono domande “potenti” è altresì importante riconoscere la responsabilità del Coach nel porre domande che stimolano il coachee a mobilitarsi verso “un’illuminazione”, a sviluppare conoscenza ed evolvere come persona consapevole.

L’illuminazione nel Buddismo è chiamata “nirvana”, significa conoscere la verità. E conoscere la verità significa smettere di soffrire. Il “nirvana” nel Buddismo rappresenta il momento dell’illuminazione, del risveglio della persona del Buddha che è in ognuno di noi. In psicologia, De Bono parla di “insight” ovvero l’intuizione conseguente al pensiero laterale, il cambio di prospettiva, momento evolutivo per la persona.

Per alcuni Buddisti il Karma riguarda questa nostra unica vita: “la tua vita è come è, perchè le decisioni che hai preso, più o meno consapevolmente, ti hanno portato dove sei ora. Per questo è fondamentale essere consapevoli prima di tutto. I pensieri creano la tua realtà, ti rendono ciò che sei. Noi siamo gli unici artefici del nostro destino, tutto quello che ci succede è una nostra responsabilità. La nostra vita è il risultato di ciò che pensiamo, diciamo e facciamo. Non possiamo decidere cosa ci accade, ma possiamo sempre decidere come reagire.”

Il Buddismo riconosce nella consapevolezza e nella responsabilità, l’agire dell’essere umano. L’obiettivo del Coaching è innescare consapevolezza nella persona riguardo le proprie potenzialità e la presa di coscienza riguardo alla responsabilità circa il loro utilizzo nella vita.

“Il Buddismo mi ha insegnato che puntare tutto su ciò che abbiamo fuori è un rischio troppo grande, che nessuno dovrebbe prendersi. E se è sicuramente vero che certi fattori ci rendono felici, è altrettanto vero che sono in costante cambiamento. Nella visione Occidentale, la felicità è come una montagna da scalare: quello che cerchiamo si trova lassù in cima, lontano. Con questa visione essere frustrati è normale: la cima è distante, lo sforzo per raggiungerla è immenso. Nel Buddismo la serenità è più simile a una montagna da scavare: quello che cerchiamo è già dentro di noi e il nostro compito è rimuovere strati di detriti accumulati, lasciare andare la pesantezza, finchè non ci troveremo davanti alla luce che, inconsapevolmente, abbiamo sempre custodito”.

Il metodo del Coaching accompagna il coachee a riconoscere e ridurre quelle interferenze, esterne ed interne, che ostacolano l’espressione del suo potenziale, lo accompagna a far emergere le risorse interne che custodisce in sè, le valorizza favorendo il processo di evoluzione.

ESSERE PRESENTI

“Era arrivato il momento di guardarmi dentro e coltivare la serenità che per i buddisti rappresenta la vera felicità, ed è associata alla calma, la lucidità, è l’assenza di turbamento e confusione. È presenza mentale e accettazione”.
Nella relazione di Coaching, il Coach è nel Kairos, presente nel qui e ora, accoglie l’unicità del coachee in tutta la sua espressione.

Nel Buddismo si invita a sperimentare il non-dualismo e la presenza mentale, in un certo senso questo è espresso nello stato di flow di Csiksentmihalyi, quando viviamo una condizione in cui non esiste nient’altro che quello che stiamo facendo in questo preciso istante e in questo preciso luogo. Smettiamo di identificarci con il sè, ovvero con un nome, un’età, un lavoro o un’altra etichetta, e diventiamo ciò che facciamo. siamo l’esperienza diretta della vita e del nostro potenziale.

LA CURA DI SÈ

Il maestro invita ad agire nella sfera dell’essere, il buddista lavora su di sé per ridurre la propria sofferenza e aiuta gli altri a fare lo stesso, il Coach lavora in primis sulla relazione con sé stesso, consapevole della propria sfera dell’essere e del fare.

“In un seminario a cui partecipai in cui si parlava dell’Islam, partecipavano un Islamico, un sacerdote e un monaco buddista. Dopo uno scambio acceso su diverse questioni tra il sacerdote e l’Islamico, chiesero al Monca: “ E lei cosa ne pensa?” “Io non penso nulla”, rispose il monaco. Era l’incarnazione del “so di non sapere” di Socrate: la vera saggezza è ammettere di non sapere ciò che gli altri credono di conoscere. Conoscere questa unica verità ci rende le persone più sagge in un mondo di opinioni, dubbi, punti di vista”.

I maestri hanno le risposte, ti dicono cosa fare e cosa non fare. Questa è la visione più comune di un maestro in Occidente. Nel Buddismo al contrario, la vera saggezza appartiene a chi mantiene sempre “una mente da principiante”. Quelle persone pienamente consapevoli di non poter sapere tutto. E sono quindi umili, di ampie vedute, aperte al confronto e incuriosite dall’altro, prive di pregiudizi e paletti mentali. Prive di quella tensione che ci costringe a difendere”.

“Se vuoi conoscere la vita, devi avere il coraggio di lasciare andare tutto quello che credi di sapere, a quel punto conoscerai tutto quello che c’è da conoscere”.

“So di non sapere”, il primo dei più importanti insegnamenti per un Coach, lo tramanda Socrate, lo ricorda la pratica, e lo insegna anche la vita quotidiana attraverso la relazionalità. Solo nella piena presenza, libera da ogni pregiudizio, giudizio e nostro condizionamento, siamo in grado di lasciare tutto il dovuto spazio all’espressione dell’altro, al coachee nel nostro caso, solo nella consapevolezza di non sapere riusciremo a porre le domande “potenzianti”.

LA RELAZIONE

Il Buddismo invita ad allenare la concentrazione attraverso la pratica della meditazione: “samatha” come tipologia meditativa in cui ci si concentra su un singolo elemento, per calmare la mente e portare pace e tranquillità dentro di noi e allenare la presenza mentale; “vipassana” che serve a trovare la verità dentro di noi, attraverso un’osservazione vigile, consapevole e non giudicante di tutto ciò che succede dentro di noi.

Upeksha significa inclusione, equanimità e non-discrimanzione. È quando accetti e abbracci completamente l’altra persona senza giudicarla, quando non vuoi escludere niente di ciò che la caratterizza, compresi i suoi difetti, le sue crepe, le sue crepe e ciò di cui si vergogna. Nelle relazioni praticare l’upeksha significa portare il rapporto a un altro livello.

Ecco che ritroviamo questo concetto nella relazione di Coaching, dove il Coach unendo la sfera dell’essere e la sfera del fare e nella coachability, si pone in pieno ascolto, accoglie, è autentico e alleato del coachee.

“Cosa possiamo fare dunque per aiutare qualcuno in difficoltà? Innanzitutto, l’ascolto consapevole. Molto spesso le persone vogliono solo essere ascoltate, non vogliono consigli. Il Buddha diceva che le risposte sono dentro di noi, tutte quante. Un ottimo modo per tirarle fuori è parlare senza essere interrotti e giudicati”.

“Avrei tanto voluto ricevere un consiglio diretto sulla mia situazione, ma Kento me lo negava. Era come se volesse che ci arrivassi io, da solo. Era frustrante ma nel tempo avrei capito che quel suo atteggiamento era necessario affinchè guarissi davvero”.
Il maestro non consiglia e non interviene direttamente “Meditando capirai, non posso essere io a spiegartelo, devi essere tu a capirlo.”

Così come il maestro, il Coach non interviene portando elementi suoi o esterni, ma accompagna il coachee verso una maggiore consapevolezza di sé, stimolandolo con gli strumenti che il coaching mette a disposizione, il Coach agisce come responsabile del processo e non del contenuto.

“Può una domanda cambiarti la vita? No, non può. Ma la mente è uno strumento straordinario quando la si utilizza in modo retto. Se la metti di fronte alla verità, ciò che è in grado di mostrarti può essere sbalorditivo, può diventare un faro nella notte e mostrarti quante strade ci sono davanti a te. Può farti capire che tutte le risposte sono già dentro di te. Così trovai la domanda che di lì in poi sarebbe stata il mio faro “Che cosa farebbe la miglior versione di me stesso in questa situazione?”

Se uno strumento potente del coach è porre domande per stimolare l’introspezione della persona, forse ancor più potente è l’esperienza che il coachee sperimenta nella relazione con il Coach, come modello efficace di relazionalità.

Il Buddismo riconosce l’empatia come la capacità di comprendere pienamente lo stato d’animo dell’altra persona ma con la solida consapevolezza che quello stato d’animo appartiene all’altra persona e non a noi. Se qualcuno è triste e lo vogliamo aiutare non dobbiamo diventare tristi. Dobbiamo invece accettare, rispettare e capire la sua tristezza restando però distaccati e lucidi. Solo così possiamo essere d’aiuto.

Il Coach, nella sfera dell’essere e del fare, è tanto più efficace per il coachee quanto più capace di osservare e riconoscere il potenziale del coachee, in tutte le sue sfaccettature, di ascoltare la situazione che ha generato la domanda di coaching e dunque la crisi di auto-governo, rimanendo distaccato dal racconto e dallo stato d’animo della persona.

Mi ha colpito molto quanti elementi in comune ho riscontrato nelle qualità che un Coach dovrebbe possedere e nella modalità di “insegnamento” di un maestro Buddista. Soprattutto ho evidenziato quanto sia necessaria la cura di sè, come persona e dunque come coach, per una efficace cura dell’altro. Integrare la pratica del coaching (come coach) con la filosofia di vita del Buddismo potrebbe essere, dunque, un’opportunità per ampliare la sfera dell’essere e del fare di un Coach.